Delfi è
luogo di culto panellenico
luogo di manifestazione del Dio
che consiglia e indirizza
che si manifesta come parola di luce e di ombra
figlia del cielo e della terra Ghe
il Logos
secondo il principio della misura
niente di troppo
μηδὲν ἄγαν
stava scritto sul frontone del Tempio e
conosci te stesso
γνῶθι σαυτόν
autoconoscenza come condizione del Bene
stava ancora scritto sul frontone del Tempio
il fine ultimo della manteia.
luogo della esibizione delle glorie civiche e militari delle poleis
luogo di contraddizioni e lacerazioni
che diventano compatibili sotto l’ombra del Tempio
perché il loro senso lo custodisce il Dio
l’unità degli opposti è profonda armonia
Culto di Apollo
il dio della misura,
dell’ arte come rappresentazione figurativa
come musica dai ritmi solenni e cadenzati
come poesia del solenne e del sublime
e Dioniso
il dio dell’ebbrezza
della gioia sfrenata di vivere
dell’arte come passione travolgente e tragica
come musica dal ritmo incalzante e travolgente
come poesia del ditirambo
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Con lo γνῶθι σαυτόν , scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo , insieme con l’invito alla moderazione, μηδὲν ἄγαν, l’oracolo di Apollo invitava l’uomo a indagare dentro di sé, per scoprire che l’essenza della nostra vita dentro, non al di fuori di noi.....
Voci a Delfi 2010
Sulle basi rimaste di pietra corrono migliaia di parole minute scritte 2500 anni fa perché non le portasse via il tempo. Così esse vivono ancora in questa vallata che fra il Parnaso e l’Elicona scende verso la Beozia. Raccontano dei bronzi che sorreggevano, eretti a ricordare splendide vittorie e dolorose sconfitte. Vinsero i Greci a Troia, a Maratona. Vinsero gli Spartani a Egospotami e persero gli Ateniesi. Di questi eventi parlano ancora i libri di scuola, ma qui, a Delfi, essi hanno lasciato l’eco, che rimbalza dalle Fedriadi, si dilegua lungo questa valle per tornare ogni volta che si percorre questa via. Qui sono concentrati tutti gli orgogli dell’Ellade, tutte le ambizioni, tutti i sogni di potere. Tutto porta verso il Tempio, dove la voce inquietante della Pizia dice: ricordati che tutto questo è precario, dura poco, al passo successivo dilegua, e tu sei ancora confuso, perché vieni da me a cercare un po’ di luce. Sarà buono il consiglio che ti do: conosci te stesso e niente di troppo. Ma non sarà facile, e tu lo sai.
Sopra quel sasso il mostro di Ghe, ne custodiva l’oracolo. Dovette venire a Delfi il dio della luce perché fosse liberato l’oracolo e divenisse colui che dava logos agli uomini, e ne indicava la
via rischiarandone le menti coi suoi consigli. La verità è nascosta, coperta dalla terra. Anche noi siamo terra, lo è anche il nostro corpo, nel quale l’anima nostra è immersa. Ma per salvarci
dobbiamo ‘conoscere noi stessi’, e mettere un po’ della luce del Logos, cercando sotto la terra e dentro il nostro corpo di passioni irrazionali. Apollo vuole che la Pizia scenda sotto terra per
raccogliere la verità, perché è lì che la nasconde; quindi le dà la parola che la trasporti, che diventa Logos per gli uomini. Il serpente doveva essere abbattuto con un delitto sacro, perché la
Pizia fosse libera di riferire agli uomini e fosse possibile costruire il tempio dentro il quale gli uomini potevano incontrare il dio per conoscere se stessi.
Qui ha trovato dimora il sogno ellenico che la bellezza matematica della misura e della divina proporzione potesse salvare gli uomini. Per questo sogno migliaia di Greci sono giunti per secoli da
lontano per chiedere ad Apollo la luce della misura, il sacro consiglio.
Ora, soffia il vento sull’Omphalos, l’ombelico del mondo. Il Tempio non ha più la sua sacra ombra, sono crollate le colonne di Apollo, e si è riempito di vento e di luce. L’acqua profetica si è spenta. Abbiamo chiesto alla Pizia di parlarci ancora una volta, ed ella è venuta. Attraversa l’ingresso passando fra le colonne, si trascina con passo incerto e stanco lungo il Tempio e va verso la sua cripta. La cripta del Tempio, colma di terra, è liberata, si apre per l’ultima volta e la lascia scendere nell’angusto spazio dove è rimasto il tripode della profezia ed una kylix di acqua sacra per lei. Mastica l’alloro, siede sul tripode, beve l’ultima goccia di quell’acqua spenta e dice:
“Dove se n’è andato Dio? ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”
Ma noi, che siamo venuti dopo quell’assassinio, che abbiamo spento l’acqua profetica, che abbiamo svuotato il Tempio, non apparteniamo ad una Storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie. Così non è stato, ormai lo sappiamo. Apparteniamo al secolo più sanguinoso della storia umana, che ha usato il Logos per uccidere i fratelli sugli sterminati campi di battaglia della Marna e del Don, per seppellirli sotto le macerie delle loro case a Dresda e a Berlino, per annientare città intere nel fuoco della materia da lui scatenata, per bruciare nei forni di Auschwitz la dignità dell’uomo assieme alle sue ossa, per fare ricche nazioni affamando nazioni lontane. L’oltre-uomo è stato ed è l’uomo della ybris, della tracotanza che non riconosce il sacro e non lo rispetta, che ha usato il Logos per bruciare i Logos Non abbiamo guadagnato nulla ad uccidere Dio. Dio è morto, ma è morto con lui anche l’uomo perché, dopo averlo ucciso, ha gettato nella sua fossa per dimenticarla anche la parola che ci aveva donato, la più preziosa: conosci te stesso e niente di troppo.
Elementi notevoli
Miti rappresentati
Episodi della guerra di Troia
Gigantomachia
Giudizio di Paride
Contesa tra Eracle e Apollo per il treppiede
Tesoro degli Ateniesi
Amazzonomachia
Le fatiche di Eracle
Le fatiche di Teseo
Apollo figlio di Latona e di Zeus.
Leggenda di Pitone
La guerra d Troia
I fatti della guerra di Troia per i greci dell’età arcaica e classica sono separati dal Medioevo ellenico. Sono abbastanza lontani per divenire mito. Omero li ha cantati nel 700 mitizzandoli, mescolando gli eroi con la presenza degli dei.
Paride, figlio di Priamo re di Troia, fu chiamato a giudicare la più bella delle dee, alla quale doveva essere data la mela d’oro gettata sul tavolo del banchetto dalla Discordia, che non era stata invitata. E scelse Venere. Per compensarlo di ciò fu aiutato a rapire Elena, moglie di Menelao di Sparta, sorella di Clitennestra, moglie di Agamennone di Micene. Menelao e Agamennone erano fratelli della stirpe di Pelope, figli di Atreo.
Scoppiò la guerra tra gli Achei guidati da Agamennone e i Troiani, che ospitarono Elena rapita.
Venere, Ares (Marte), Artemide e Apollo furono coi Troiani mentre Atena, Era, Poseidone e Demetra con gli Achei.
Gigantomachia
La gigantomachia è un tema ricorrente nelle rappresentazioni. I Giganti furono la generazione divina della terra Ghe, la dea madre originaria che si congiungeva con Urano, il cielo, per generare i Titani. I Titani furono la seconda generazione divina, mentre da due di essi, Rhea e Chrono, nacque la terza, Zeus e gli altri dei olimpici. Chrono una notte tagliò i testicoli al padre Urano mentre di congiungeva con Ghe, e dal sangue sparso uscirono i Giganti.
I giganti rappresentano la forza bruta e informe, incompatibile con il Logos. Essi devono essere abbattuti, annientati. Ci pensarono gli dei del Logos, gli dei olimpici: in primo luogo Atena. Per essere sconfitti gli dei dovettero farsi aiutare da un mortale (Eracle).
Il mito vuole che siano sepolti sotto isole come la Sicilia o montagne, come Athos.
Il tema rappresentativo ricorre molte volte sui templi. Esso significa il trionfo del Logos della terza generazione divina sulla forza bruta e su ciò che è informe, smisurato.
Amazzonomachia
Le Amazzoni erano un popolo di donne, che non ammetteva maschi di pari rango, solo come servi. Si bruciavano una mammella per favorire l’uso dell’arco a tracolla. Amavano la guerra e la caccia. Erano collocate a nord della Greci o in Asia. Molti eroi greci parteciparono a spedizioni contro le Amazzoni. Eracle, che doveva impadronirsi della cintura della loro regina Ippolita, ebbe da questa la cintura ma per un malinteso suscitato dalla sua persecutrice Era, sorella e moglie di Zeus, dovette combattere le amazzoni ed uccide Ippolita. Lo aveva accompagnato l’eroe attico Teseo, che rapì e portò con sè Antiope. Le Amazzoni invasero l’Attica, e si accamparono sulla collina sotto l’Acropoli, l’Areopago (colle di Ares, dio della guerra). Qui Teseo le combattè e le cacciò dall’Attica.
La cultura maschilista greca mitizzò la pericolosità di un popolo di donne che si danno proprie istituzioni e assumono comportamenti maschili. Il mito fu spesso rappresentato per esprimere una sorta di esorcismo nei confronti di un mutamento del ruolo delle donne nella compagine sociale greca.
Eracle e Teseo e le fatiche
I due eroi sono spesso associati e comparati. Eracle fu un eroe argivo, Teseo, attico. Il nazionalismo ateniese cercò di porre Teseo sullo stesso piano di Eracle, attribuendogli imprese e fatiche, o comunque una collaborazione.
Eracle e Teseo affrontano mostri, minacce da parte di bestie e uomini (Amazzoni), o divinità condannate dal Logos degli dei olimpici (Giganti). Rappresentano lo sforzo originario della operosità umana, della civilizzazione delle terre destinate ad essere abitate, che ha successo con l’aiuto divino: Eracle agisce sempre sotto la protezione di Atena.
Apollo figlio di Zeus e Latona
Latona fu amata da Zeus e restò incinta di due gemelli. Perseguitata da Era, moglie di Zeus, vagò alla ricerca di un luogo dove partorire. L’accolse l’isola errante di Delo, che quindi si fermò. Qui partorì i due gemelli Apollo e Artemide.
L’uno sarà il dio della luce e del Sole, che si trasferisce alla parola che si manifesta nell’oracolo e si rappresenta nell’arte, delle arti delle Muse: trasferisce il mistero della Terra Ghe e l’oscurità della psiche umana in parola o figura che si rappresenta; l’altra la dea della penombra, della Luna, del limite tra l’oscurità del bosco e il chiaro dello spazio abitato dall’uomo, e si esprime nella caccia.
Vagando con Apollo in braccio Latona arrivò a Delfi. Qui Apollo dovette uccidere il figlio della Terra, Pitone, per impossessarsi dell’oracolo, lanciando il suo dardo dal sasso vicino a dove era accovacciato. Stabilì a Delfi l’oracolo, consacrando il treppiede, su cui doveva sedersi la Pizia per profetare.
Il suo albero fu l’alloro.
Apollo Eracle ed il treppiede della Pizia
Eacle si era recato a Delfi per un oracolo. Dal momento che la Pizia non voleva rispondergli, Eracle saccheggiò il Tempio e volle portare via il treppiede per stabilire l’oracolo altrove. Ma Apollo lo fermò. Ne venne fuori una contesa che finì per l’intervento di Zeus.
Delfi 2010
Sulle basi rimaste di pietra corrono migliaia di parole minute scritte 2500 anni fa perché non le portasse via il tempo. Così esse vivono ancora in questa vallata che fra il Parnaso e l’Elicona scende verso la Beozia. Raccontano dei bronzi che sorreggevano, eretti a ricordare splendide vittorie e dolorose sconfitte. Vinsero i Greci a Troia, a Maratona. Vinsero gli Spartani a Egospotami e persero gli Ateniesi. Di questi eventi parlano ancora i libri di scuola, ma qui, a Delfi, essi hanno lasciato l’eco, che rimbalza dalle Fedriadi, si dilegua lungo questa valle per tornare ogni volta che si percorre questa via. Qui sono concentrati tutti gli orgogli dell’Ellade, tutte le ambizioni, tutti i sogni di potere. Tutto porta verso il Tempio, dove la voce inquietante della Pizia dice: ricordati che tutto questo è precario, dura poco, al passo successivo dilegua, e tu sei ancora confuso, perché vieni da me a cercare un po’ di luce. Sarà buono il consiglio che ti do: conosci te stesso e niente di troppo. Ma non sarà facile, e tu lo sai.
Sopra quel sasso il mostro di Ghe, ne custodiva l’oracolo. Dovette venire a Delfi il dio della luce perché fosse liberato l’oracolo e divenisse colui che dava logos agli uomini, e ne indicava la via rischiarandone le menti coi suoi consigli. La verità è nascosta, coperta dalla terra. Anche noi siamo terra, lo è anche il nostro corpo, nel quale l’anima nostra è immersa.
Ma per salvarci dobbiamo ‘conoscere noi stessi’, e mettere un po’ della luce del Logos, cercando sotto la terra e dentro il nostro corpo di passioni irrazionali.
Apollo vuole che la Pizia scenda sotto terra per raccogliere la verità, perché è lì che la nasconde; quindi le dà la parola che la trasporti, che diventa Logos per gli uomini. Il serpente doveva essere abbattuto con un delitto sacro, perché la Pizia fosse libera di riferire agli uomini e fosse possibile costruire il tempio dentro il quale gli uomini potevano incontrare il dio per conoscere se stessi.
Qui ha trovato dimora il sogno ellenico che la bellezza matematica della misura e della divina proporzione potesse salvare gli uomini. Per questo sogno migliaia di Greci sono giunti per secoli da lontano per chiedere ad Apollo la luce della misura, il sacro consiglio.
Ora, soffia il vento sull’Omphalos, l’ombelico del mondo. Il Tempio non ha più la sua sacra ombra, sono crollate le colonne di Apollo, e si è riempito di vento e di luce. L’acqua profetica si è spenta. Abbiamo chiesto alla Pizia di parlarci ancora una volta, ed ella è venuta. Attraversa l’ingresso passando fra le colonne, si trascina con passo incerto e stanco lungo il Tempio e va verso la sua cripta. La cripta del Tempio, colma di terra, è liberata, si apre per l’ultima volta e la lascia scendere nell’angusto spazio dove è rimasto il tripode della profezia ed una kylix di acqua sacra per lei. Mastica l’alloro, siede sul tripode, beve l’ultima goccia di quell’acqua spenta e dice:
“Dove se n’è andato Dio? ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!” ( F. Nietzsche)
Ma noi, che siamo venuti dopo quell’assassinio, che abbiamo spento l’acqua profetica, che abbiamo svuotato il Tempio, non apparteniamo ad una Storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie. Così non è stato, ormai lo sappiamo.
Apparteniamo, noi, al secolo più sanguinoso della storia umana, che ha usato il Logos
L’oltre-uomo è stato ed è l’uomo della ybris, della tracotanza che non riconosce il sacro e non lo rispetta, che ha usato il Logos per bruciare i Logos Non abbiamo guadagnato nulla ad uccidere Dio. Dio è morto, ma è morto con lui anche l’uomo perché, dopo averlo ucciso, ha gettato nella sua fossa per dimenticarla anche la parola che ci aveva donato, la più preziosa: conosci te stesso ( Γνῶθι σεαυτόν) e niente di troppo (Μηδὲν ἄγαν).
©professor Adriano Ceschia
attenti a quei due.....
li riconoscete?